Cronache dalla montagna – Alexandre Vialatte*

Oggi è il terzo mondo a smuoversi. Non c’è paese in cui non si sparino proiettili. Si resta ad osservare, un occhio sullo schermo del televisore dove continua a ridere l’ospite della domenica e l’altro sull’incrocio dove si schiantano le automobili. Lo spettacolo del mondo rende strabici (23 novembre 1969)

Cronache dalla montagna è una raccolta di cronache (per l’appunto) che il giornalista e scrittore Alexandre Vialatte scrisse tra il 1952 e il 1971 per il quotidiano dell’Alvernia “La Montagne”. La casa editrice Prehistorica le sta pubblicando in italiano in piccoli volumi agevoli, tascabili perfetti per un’attesa in posta, dal dentista, per un breve viaggio in tram: si legge una cronaca, si chiude il libro e si riprende la cronaca successiva anche a distanza di ore senza aver perso il filo. Io – che da loro ho ricevuto il volume intitolato “Arpeggi per alpeggi” – le ho lette praticamente così: una a sera per qualche giorno di fila ed è così che le ho più gustate: come una caramella, una coccola serale e non credo le avrei apprezzate altrettanto se le avessi lette tutte di fila.

Non bisogna aspettarsi cronache standard di paese quali incidenti, furti o racconti di sagre e inaugurazioni: quelle di Vialatte sono prevalentemente riflessioni sull’umano, scaturite da eventi ben poco “cronacheschi”: l’inizio della stagione della villeggiatura, la pubblicazione dei diari di Anais Nin, una mostra. Da questi appigli, in parte evanescenti, Vialatte trae spunto per dire la sua sulla contemporaneità, sulla fragilità dell’essere, sul valore della letteratura, su se stesso. Sono piene di arguzia e autoironia e ho trovato la definizione di Amelie Nothomb riportata in quarta di copertina particolarmente calzante: “Vialatte è il grande maestro dell’incongruo”.

Sono incongrue le cronache perché è l’essere umano ad essere incongruo, incoerente e pieno di sfaccettature. Lo sguardo di Vialatte è insolito, malinconico ma anche ricco di umorismo e in un certo qual modo mi ha fatto pensare al Signor Palomar uscito dalla penna di Italo Calvino.

Di Vialatte Prehistorica ha pubblicato i romanzi e per le Cronache dalla montagna ha istituito un’apposita collana all’interno del proprio catalogo.

* Libro ricevuto in omaggio dalla casa editrice

Otto lezioni sull’Africa – Alain Mabanckou

Come sa chi mi segue anche su YouTube, nel 2024 ho intrapreso un percorso alla scoperta dell’Africa e della sua produzione letteraria. Il primo imprescindibile testo di questo viaggio è stato Otto lezioni sull’Africa dello scrittore congolese Alain Mabanckou. Posso affermare senza tema di smentita che questo testo sia imprescindibile per chi voglia scoprire la letteratura di questo continente, perché, seppur breve, è un compendio interessantissimo benché limitato ai Paesi francofoni, nonché una miniera di titoli che vi verrà voglia di cercare ed esplorare immediatamente.

Le otto lezioni del titolo sono state tenute da Alain Mabanckou nel 2016 al College de France ed esplorano diversi temi della letteratura africana francofona: la storia della letteratura nera, la negritudine (concetto importantissimo per la letteratura africana in lingua francese e non solo), i temi prevalenti della letteratura africana e come questa letteratura viene considerata e trattata nell’editoria francese, letteratura e demagogia, l’Africa e la Francia “nera”, le guerre civili e il dramma dei bambini soldato nella letteratura e il genocidio in Ruanda.

Benché conti meno di 200 pagine (contenendo oltretutto una lettera a Macron e un discorso pronunciato per il Monumento all’Armata nera nel 2018), si tratta di un testo densissimo e ricco di informazioni e riferimenti utili per chi sia interessato a scoprire di più sulla letteratura di origine africana. Non mancano anche gli excursus storici, utili a comprendere il contesto che ha generato determinate situazioni (le guerre civili, il conflitto in Ruanda), raccontate poi nei numerosi romanzi elencati nel libro e che aspettano solo di essere scoperti.

Queste voci, descritte a torto come “lontane”, costituiscono i pezzi mancanti che ci permetterebbero di definire il nostro umanesimo nella maniera più diversificata (Otto lezioni sull’Africa – Alain Mabanckou)

Pur trattandosi di un libro di non narrativa, denso di informazioni, nomi di autori, politici, luoghi e titoli di romanzi, si tratta di un testo di facile comprensione, pensato per un pubblico presente in sala e non per intellettuali chiusi in torri d’avorio. Anzi: le lezioni qui contenute furono trasmesse radiofonicamente non solo in Francia, ma anche in tutta l’Africa francofona, riscuotendo un enorme successo in termini di ascolti.

Ho avuto la fortuna di incontrare Mabanckou a Testo, la fiera dell’editoria che si è tenuta a Firenze lo scorso febbraio. E’ stata una presentazione ricca e brillante (anche grazie alla conduzione di Lorenzo Alunni, tra l’altro traduttore di questo testo), che mi ha permesso di conoscere meglio questo autore, di cui ho già letto un romanzo (ve ne parlerò) e ho intenzione di leggere altro in futuro.

Avete letto qualcosa di letteratura africana? Ci sono titoli che vi sentite di consigliare? Vi aspetto nei commenti!

The Passenger Nigeria

Nigeria

My rating: 4 of 5 stars


Interessantissima raccolta di reportage sulla Nigeria di oggi, dalla musica alla condizione della donna, dalla politica al dramma dei rapimenti, passando per la letteratura e la questione etnica.
Il testo è ben corredato da fotografie, illustrazioni e grafici che aiutano il lettore nella ricostruzione di una realtà difficile da comprendere per chi non la conosce da vicino.
La Nigeria è un Paese pieno di contraddizioni, in forte crescita ma dilaniato dalle tensioni, dalle lotte civili e dalle ineguaglianze sociali, eppure creativamente esplosivo: il centro nevralgico della moda, dell’industria cinematografica, della scena musicale e letteraria dell’Africa.
Deve essere inoltre un Paese di incredibile bellezza, ma anche pieno di mostruosità architettoniche e scempi ecologici (si pensi allo sfruttamento petrolifero del delta del Niger, che ha portato grandi ricchezze, ma non nelle tasche degli abitanti della zona), ricco di storia, tradizioni e cultura, che trovo estremamente affascinante e spero un giorno di poter visitare.
Consiglio questo testo a chiunque sia interessato all’Africa contemporanea, perché da quanto ho capito, la Nigeria è tra gli stati sub-sahariani quello che va più veloce, nonostante tutto.
Ad ogni modo l’operazione editoriale The Passenger è per me encomiabile fonte di informazioni su diversi luoghi del mondo, che siano vicini come Milano o lontani come appunto la Nigeria. Spero che escano presto altri numeri dedicati a Paesi africani (uno sul Senegal lo comprerei immediatamente).



View all my reviews

Il tempo e l’acqua – Andri Snær Magnason – ed. Iperborea

Che strano libro è questo, a metà tra una raccolta di memorie familiari, esperienze personali, dati scientifici e riflessioni sul tempo che stiamo vivendo.

L’autore ci racconta della luna di miele dei suoi nonni che fu una spedizione su ghiacciaio. Ci mostra le foto e ci spiega che parte di quel ghiacciaio non esiste più. Ci parla di uno zio che aveva a cuore i coccodrilli e che li ha protetti finché ha vissuto, preservando i loro habitat e contribuendo a preservare quindi il pianeta. Ci racconta anche degli scempi compiuti in nome del “progresso” e della distruzione di ecosistemi per fare spazio a dighe, centri commerciali, centrali elettriche al servizio della produzione di alluminio per la fabbricazione di lattine usa e getta. Ci dice di come nella mentalità dell’uomo di oggi l’ambiente non conti nulla se non porta ritorni economici. Ma racconta anche due interviste col Dalai Lama, la sua visione illuminata e ottimista per un futuro migliore.
Il tempo e l’acqua ha sicuramente l’obiettivo di attirare l’attenzione sull’emergenza climatica, un tema sempre più urgente che l’uomo però sembra voler accantonare, posticipare, ignorare come se potesse risolversi da solo. Invece non solo si risolve: si aggrava.
Magnason lo fa in diversi modi: portando dati, riflessioni personali, ammonizioni. E lo fa anche ricordandoci che quello che facciamo oggi è frutto di ciò che è stato fatto in passato e ha una grande influenza sul futuro. Ci dice che abbiamo il potere di cambiare le cose e il dovere di farlo. I nostri nipoti (ammesso che ne abbiamo) saranno vivi nel 2100, il pianeta che stiamo distruggendo è quello che loro dovranno abitare.
In mezzo a questo sfacelo Magnason vuole infondere nel lettore anche fiducia nel futuro: quando l’umanità si è trovata davanti a grandi sfide epocali (ad esempio la Seconda Guerra Mondiale) ha sempre trovato il modo di unire le forze per affrontarle. È vero, ma a che prezzo? Quanti ebrei sono dovuti morire prima che si intervenisse? Quanti uomini sono morti soldati, quanti civili trucidati quando invece si poteva agire in anticipo? E anche adesso, quante alluvioni dovremo patire, quanti paesi saranno sommersi, quanti migranti dovranno fuggire dalle loro terre ormai desertificate prima che vengano prese decisioni e trovate soluzioni a questo enorme problema planetario?
Non solo non condivido la speranza di Magnason, ma credo che avrebbe dovuto inserire nel libro anche qualche soluzione pratica per il lettore, perché possa essere parte attiva del cambiamento e non solo sperare nelle scelte di chi ci governa e dei progressi scientifici.
Tra l’altro ho letto questo libro nella peggiore estate climatica di sempre (a quanto ne sappiamo): caldo a livelli record, siccità che ha causato razionamenti, difficoltà per agricoltori e allevatori, centrali elettriche impossibilitate a funzionare (con già gravi pregressi problemi energetici in tutta Europa che stanno portando l’inflazione a livelli impressionanti) e trasporti fluviali bloccati. Eppure nessuno dei principali partiti ha messo la questione al centro del suo programma elettorale, compresi quelli che le elezioni le hanno vinte. Conoscono il problema? Se ne vogliono occupare? Perché non ne parlano?

Vedo molte buone ragioni per essere sconfortata.

Ma d’altra parte, proprio mentre leggevo il libro ho ricevuto una mail da Iperborea (la casa editrice che pubblica il libro), inviata a tutti gli iscritti alla loro newsletter. La mail diceva che leggere il libro li ha scossi, che hanno sentito di non poter restare a guardare come se la cosa non li riguardasse, ma che volevano trovare soluzioni per ridurre il la loro impronta di carbonio. Con l’appoggio Assolombarda Servizi e Rete Clima hanno cominciato a introdurre una serie di cambiamenti: dal fornitore di energia alla carta riciclata per alcuni dei loro libri, alla consegna in bicicletta per le spedizioni su Milano. Ricevere la loro mail ha acceso in me una scintilla di speranza. La speranza che, una volta informate, le persone possono cambiare, anche in piccolo, ma sempre di più, verso un mondo più sostenibile, scuotendo anche le azioni di chi ci governa (e governerà) perché il tema sia tra i primi della loro agenda.

Il tempo è scaduto, far finta di niente non è più possibile.

Il porto di Marsiglia. Albert Londres.

Mi sono imbattuta in questo libro per caso. Un amico mi aveva invitata a fare un salto in una libreria bellissima, una libreria che tiene per scelta solo libri di case editrici indipendenti. Una libreria dalla quale è difficilissimo uscire senza un libro in mano, l’ho già sperimentato più volte.

Avevo scovato l’espediente di comprare un libro per regalarlo a mia madre, quando ho adocchiato questo librino alla cassa. Quando dico librino parlo seriamente: Il porto di Marsiglia è grande come la mia mano e conta solo 115 pagine.

Ho chiesto informazioni al libraio e mi ha detto che si trattava di una descrizione giornalistica del porto, da parte di un reporter con grande esperienza. Avendo da poco trascorso un bellissimo fine settimana a Marsiglia, non ho saputo resistere: l’ho comprato e l’ho subito messo in lettura, domandandomi come fosse possibile scrivere 115 pagine sul porto di Marsiglia (bellissimo per carità. Ma 115 pagine?).

Quel che il libraio non mi aveva detto è che il libro è del 1927, quindi praticamente quasi 100 anni fa. Il porto che descrive lui era un viavai di uomini e merci, un crocevia internazionale, un crogiuolo di umanità e di interscambi. Gente che arriva, che parte, soprattutto che passa e ripassa da Marsiglia: spassosissimo è il punto in cui si dice che se sei stato truffato in una qualsiasi parte del mondo e ti vuoi vendicare puoi sederti a un tavolino di un bar sulla Canebière (una lunga via marsigliese che conduce al porto) con un randello in mano, prima o poi vedrai passare il tuo truffatore.

La scrittura è estremamente brillante, si ride molto, ma ci si può anche commuovere davanti a campionari di disperazione in cerca di fortuna oltremare. Soprattutto emerge coloratissimo l’ambiente, non solo crocevia di passaggio, ma luogo delle grandi opportunità, dal quale si parte per qualunque luogo nel mondo e nel quale si ritorna, prima o poi. E ci si rincontra tutti, a cadenze scandite dalle partenze e dagli arrivi delle diverse navi.

Albert Londres nato a Vichy nel 1884, è considerato l’inventore del moderno giornalismo d’inchiesta. Fu corrispondente di guerra nei Paesi dell’Europa dell’Est durante la Prima Guerra Mondiale e successivamente descrisse la nascita del regime bolscevico. Dal 1922 viaggiò in Asia, raccontando della Cina, del Giappone e dell’India. Tra i suoi lavori più noti, quello dedicato alle terribili condizioni delle colonie penali in Cayenna e Guyana francese, che scosse l’opinione pubblica.

Vale la pena leggerlo anche se non si è mai stati a Marsiglia e se non si ha intenzione di andarci? Sì. È una delizia. Con questo piccolo libro si ride, si sogna, si riflette e ci si commuove anche un po’.

Vale la pena leggerlo anche se non si è mai stati a Marsiglia e se non si ha intenzione di andarci? Sì. È una delizia. Con questo piccolo libro si ride, si sogna, si riflette e ci si commuove anche un po’.

Nella foto accanto, il famoso Castello d’If (avrete in mente di certo Il Conte di Montecristo) visto dalle imbarcazioni che portano i turisti a visitarlo.

Viaggiare è il mio peccato – Agatha Christie

Molti e molti anni fa, quando andavo in Riviera o a Parigi, rimanevo affascinata alla vista dell’Orient Express a Calais e desideravo ardentemente poterci salire. Adesso, è diventato un vecchio amico di famiglia; ma l’emozione non è mai del tutto scomparsa. Ci sto viaggiando! Ci sono a bordo!

[…]E’ indubbiamente il mio treno preferito. Mi piace il suo tempo, attacca con un Allegro con furore ondeggiante e sferragliante, capace di sbatacchiarti da una parte all’altra nella sua folle furia di lasciare Calais e l’Occidente, per poi gradualmente diminuire in un rallentando, mentre marcia verso Oriente, fino a trasformarsi risolutamente in un legato.

Viaggiare è il mio peccato – Agatha Christie

Secondo un aforisma attribuito ad Agatha Christie, un archeologo è il marito ideale perché più lei invecchia e più lui la trova interessante.

In realtà un marito archeologo è ideale se ti porta con sé nelle sue spedizioni!

Fu proprio questo il caso della grande autrice, che ebbe diverse opportunità di viaggiare in Medio Oriente grazie agli scavi che il marito archeologo Max Mallowan organizzò nella zona che fu la Mesopotamia, alla ricerca di reperti e civiltà perdute.

Proprio di questo racconta “Viaggiare è il mio peccato” (titolo originale “Come, tell me how you live”), insolito memoir della regina del giallo.

Il libro, pubblicato nel 1946, racconta – in ordine cronologico – le diverse spedizioni organizzate negli anni Trenta alla ricerca di insediamenti preistorici.

Non lo definirei un vero e proprio libro di viaggi, quanto più il resoconto di soggiorni prolungati nelle zone interessate dagli scavi, che si trovano nell’odierna Siria, molto vicine al confine tra Turchia e Iraq.

Nelle pagine ritroviamo la scomodità di vivere in tenda (comicamente ribattezzata “le camping” da una spiritosissima Christie), la complessità di intendersi con la popolazione locale sia per ragioni linguistiche che principalmente culturali, l’entusiasmo per i ritrovamenti più interessanti, le difficoltà burocratiche e pratiche (non si contano le volte in cui i loro mezzi di trasporto restano bloccati o impantanati sulle pseudostrade mediorientali), le relazioni con i diversi membri dell’equipaggio, il cibo e una serie di aneddoti più o meno spassosi.

Christie fa intendere più volte che nonostante tutti gli aspetti negativi, quelli furono periodi estremamente felici, anche se impegnativi.

Gli aneddoti che racconta sono innumerevoli e quasi tutti estremamente spassosi: più di una volta durante la lettura mi sono trovata a ridere sonoramente per gli episodi narrati.

Va presa però in considerazione l’epoca in cui il testo fu scritto e di conseguenza la mentalità. Solo in questo caso potrà essere accettabile la sottile condiscendenza con cui vengono ritratti gli abitanti del posto, dagli sceicchi ai lavoratori agli scavi.

“Ah,” fa [lo sceicco] accorgendosi che sono impegnata a risolvere un cruciverba sul Times “così la tua khatun sa leggere? E sa pure scrivere?”
Max gli conferma che è proprio così.
“Una khatun molto istruita” dice lo sceicco con approvazione.

Viaggiare è il mio peccato – Agatha Christie

Benché i resoconti di viaggio veri e propri nel libro siano tutto sommato pochi, questi mi hanno colpita e in un caso, anche commossa. Sto parlando dell’arrivo a Palmira, tappa “di strada” per giungere alla destinazione finale.

E poi, dopo sette ore di caldo e di monotono e desolato mondo: Palmira!
Io credo che il fascino di Palmira consista in questo: la sua snella, vellutata bellezza si eleva fantastica nel mezzo del bollore della sabbia. È leggiadra, favolosa e incredibile come le artificiose impossibilità dei sogni. Corti e templi e rovinate colonne…

Viaggiare è il mio peccato – Agatha Christie

Come in Passaggio a Teheran, anche qui il sito archeologico viene descritto come un luogo di incredibile bellezza.

Leggere di Palmira mi spezza sempre il cuore. Non ho mai avuto la fortuna di visitarla e a volte mi capita di guardare su internet le foto di com’era prima della distruzione a opera di uomini stupidi e crudeli che non avevano capito hanno visto nella bellezza qualcosa da annientare.

A tutto questo si aggiunge nel dolore per il conflitto siriano che occupa così poco spazio nei media, ma non smette di creare sofferenze nella popolazione civile.

Non mi resta quindi che cercare Palmira (e altre mete) nei libri di viaggio di chi c’è stato ed era talmente fortunato da non rendersi conto che un giorno non ci sarebbe stata più.

Forse mio padre – Laura Forti*

Che i morti trovino pace. Ormai la vita ha preso una piega, una direzione, una storia. Perché tornare a intestardirsi su vicende trascorse, su occasioni perdute? Sapere che sei forse mio padre mi farà stare meglio, mi farà sentire più piena, meno incompleta, meno arrabbiata? O invece il vuoto che porto dentro si allargherà a dismisura, inghiottendomi?

Forse mio padre – Laura Forti

Negli ultimi giorni prima di morire, la madre dell’autrice svela alla figlia un segreto al quale aveva in realtà accennato durante tutta la vita, cioè che il suo vero padre non sarebbe l’uomo con cui è cresciuta, ma un altro uomo, il primo fidanzato della madre, conosciuto quando era ancora giovanissima, abbandonato e successivamente ritrovato.

L’autrice si mette quindi alla ricerca dell’uomo – ormai morto – che fu suo padre, per scoprire chi era, come lo ricordava chi l’ha conosciuto, qual era stata la sua vita e il rapporto con lei, anche se non si erano mai incontrati.

Viene quindi alla luce “Forse mio padre”, un’opera di auto-fiction che mi ha ricordato l’Annie Ernaux di “L’altra figlia”, che ripercorre l’uomo, ripercorre le tappe dell’infanzia e della giovinezza dell’autrice, ma – in totale contrasto con il titolo – soprattutto ripercorre la vita della madre, la sua infanzia, la giovinezza, il matrimonio sbagliato e il fallimento della vita.

C’è una cosa che abbiamo in comune.
Siamo stati entrambi innamorati della stessa donna.
Siamo stati entrambi ingannati.

Laura Forti – Forse mio padre

È infatti notevole come tramite questo elemento della sua vita privata, Laura Forti riesca a ricreare una situazione universale: quella di moltissime donne italiane, intrappolate in matrimoni sbagliati, gretti, opprimenti e frustranti.

In particolare, la madre dell’autrice, di famiglia ebraica, da bambina era fuggita con la famiglia in campagna per evitare i rastrellamenti. Da adolescente era stata staffetta partigiana, alla fine della guerra era tornata in città, aveva studiato all’università. E addirittura aveva scelto una grande avventura: quella di far parte del neonato stato di Israele, trasferendosi lì dall’Italia. Ma dopo pochi mesi era tornata in patria, per sposare quello che credeva il suo grande amore. Anche quella sembrava un’avventura: sposare un cristiano, mettendosi contro tutta la famiglia d’origine.

Ma quello che sembrava il grande amore, una scelta controcorrente, si era rivelato invece il più becero e avvilente dei conformismi. Tutta la sua esuberanza, la ricerca di adrenalina, frustrate dagli obblighi familiari, la casa, il marito, i figli. La vita improvvisamente diventa un tunnel senza luci e trasforma questa donna così brillante in una persona incattivita, meschina, piena di rivendicazioni.

Quante donne degli anni Cinquanta si sono ritrovate a fare una vita così in Italia? A sentirsi prigioniere dell’unico apparente modello di vita, quando sapevano, avevano provato, avevano vissuto un’alternativa molto più soddisfacente?

Quanta infelicità ha causato l’imposizione di quell’unico modello, non solo nelle donne che ne sono state le vittime, ma anche in tutti i loro familiari?

Il lettore se lo chiede ad ogni pagina, ad ogni parola, mentre esplora con Laura Forti tutti i labili indizi e i pochissimi aneddoti connessi a colui che fu “forse suo padre”.

E’ un libro intimo e a tratti straziante, che però riesce a essere universale specchio di un’epoca e di una condizione. Ma è anche un libro che mostra il potere catartico della scrittura, dello scavare a fondo ed estrarre le pepite preziose che ci sono state nel nostro passato. Come l’ultima, che l’autrice tira fuori inaspettatamente, riuscendo a mettere tante cose in una prospettiva diversa, più serena, meno drammatica.

Mi hai insegnato che si può amare discretamente qualcuno e uscire di scena in punta di piedi.

Forse mio padre – Laura Forti

*Ricevuto in omaggio dalla casa editrice Giuntina

La linea del sangue – Jesmyn Ward

La linea del sangue by Jesmyn Ward

La mia valutazione: 5 of 5 stars


Mi viene difficile spiegare perché ho amato tanto questo libro, che su di me ha avuto un effetto “risucchio”, precipitandomi dentro il luogo e le situazioni come se guardassi un film.
Siamo sempre a Bois Sauvage, luogo immaginario di anche altri romanzi di Ward, nel Sud degli Stati Uniti, in una cittadina misera, dove le persone nella maggior parte dei casi tirano a campare con impieghi di basso livello o illegali, non ci sono opportunità per i giovani e il consumo di alcol e droghe è considerato la normalità.
La storia è quella di due fratelli gemelli, due bravi ragazzi cresciuti con la nonna, perché la madre si è trasferita ad Atlanta in cerca di una vita migliore (ma si fa rivedere alle festività e manda i soldi a casa), il padre li ha progressivamente abbandonati, diventando tossicodipendente.
Ward non ci dice mai espressamente che i ragazzi sono neri: lo dà per scontato per l’ambiente, per le situazioni.
Il romanzo comincia nel giorno della consegna dei diplomi e si dipana poi per l’estate successiva, in cui i due cercano un lavoro, rivedono i genitori e le dinamiche del loro rapporto evolvono.
Il punto forte di questo romanzo è la scrittura.
Ward riesce ad evocare magnificamente i paesaggi del Mississippi, la loro bellezza a volte crudele, certi tramonti incendiari, il fiume che sembra placido e soprattutto il caldo. Durante tutte le oltre 300 pagine del libro il lettore non dimentica mai che fa un caldo intollerabile, che i due ragazzi si muovono sotto temperature insopportabili, che la nonna (personaggio magnifico) cucina sudando già dalla mattina presto, che tutti dormono svestiti e che molti tengono l’aria condizionata altissima.
I personaggi sono tutti splendidamente autentici, pieni di difetti ma anche di qualità e si amano proprio perché sono reali, perché in alcuni casi, anche quando sbagliano, quegli stessi errori potremmo averli fatti noi.
Il tema del romanzo sono le circostanze. Le circostanze che ti trasformano in quello che sei, indipendentemente dalla materia prima di partenza: per diventare una persona onesta oppure no a volte basta un piccolo dettaglio, uno scarto, un’occasione (mancata).
Altro elemento fondamentale è il “punto di vista degli altri”: in questo romanzo i personaggi spesso vengono visti dagli altri senza accorgersene: un fratello guarda l’altro mentre dorme, oppure osserva la madre mentre lo attende in aeroporto, ci sono porte socchiuse, specchi, corridoi, la bellezza “negli occhi di chi guarda”, ma anche e soprattutto la bellezza che se ne va.
Infine, ma non per ultimo, questo romanzo ha una splendida struttura circolare che lo porta al termine dove tutto era cominciato, con un finale di bellezza mozzafiato e un bellissimo messaggio che mi ha emozionata tantissimo e al quale non riesco a smettere di pensare.

View all my reviews

La linea del sangue di Jesmyn Ward è stato uno dei libri più belli che ho letto nel 2021. Se vuoi scoprire altri libri che mi sono piaciuti, oppure quelli che mi sono piaciuti di meno, guarda questo video:

Un altro tamburo – W.M. Kelley

Un altro tamburoUn altro tamburo by William Melvin Kelley

My rating: 5 of 5 stars

Un romanzo breve, che scivola via da solo ma con un’intensità e una potenza inaspettate. Un romanzo corale che salta avanti e indietro nel tempo tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta del XX secolo, fino a un momento (che nel romanzo succede all’inizio) in cui una famigliola di neri sparge il sale sulla fattoria di proprietà, brucia la casa e abbandona tutto per andare via. Seguendo il loro esempio tutti i neri della cittadina (del Sud degli Stati Uniti, naturalmente) abbandonano le loro case per cercare una vita migliore al Nord. Come sono arrivati a fare questo? Lo scopriremo soprattutto tramite gli occhi dei bianchi che li conoscevano più o meno bene.

Sono infatti soprattutto i bianchi a raccontare questa storia: la famiglia per cui Tucker Caliban lavorava, il figlio di un cliente abituale dell’emporio, gli sfaccendati della cittadina. Kelley costruisce un romanzo corale utilizzando più voci e più tecniche narrative e selezionando gli elementi giusti (l’antenato portato a forza dall’Africa su una nave negriera, la moglie istruita e bellissima, il generale di uno stato neutrale) è in grado di dar vita ad un affresco storico e sociale convincente.

IMG_7121L’atmosfera ricorda Faulkner: la cittadina, le situazioni, le incomprensioni familiari e certi tipi di infelicità. Eppure qui c’è un’intimità diversa, una tenerezza di intenti che non ho trovato nei (due) romanzi di Faulkner che ho letto. I personaggi di Kelley sono magnifici, ci si affeziona, mentre è praticamente impossibile affezionarsi a un personaggio di Faulkner, è come se tutti avessero gli aculei.

Un romanzo contemporaneo non esattamente postmoderno, ma sicuramente non del tutto convenzionale.

Siamo a gennaio e ho già un candidato a Libro più bello del 2020.

View all my reviews

La morte di Murat Idrissi

La morte di Murat IdrissiLa morte di Murat Idrissi by Tommy Wieringa

My rating: 4 of 5 stars

Brevissima storia di due ragazze olandesi di origine marocchina che durante una vacanza in Marocco accettano di portare in Europa, nascosto nel bagagliaio della loro auto un giovane marocchino. Come si capisce già dal titolo, il ragazzo non sopravvivrà alla traversata. Il romanzo ci racconta il tormento delle due donne davanti alla situazione in cui si sono messe, ma anche le difficoltà di una loro vita in cui non si sentono né olandesi né marocchine, fuori posto in ogni luogo e che lottano con le unghie e coi denti per costruirsi una loro identità.
Straziante, ma superconsigliato.

View all my reviews